Uganda e Zimbabwe. Dei due paesi si è tornato a parlare negli ultimi giorni. Il primo per una guerra che sembra assumere sempre più le caratteristiche di quello che alcuni iniziano a chiamare genocidio, il secondo per una situazione politica che ha messo in ginocchio la già fragile economia.
Nell’Uganda del Nord proseguono gli attacchi contro i civili compiuti dai ribelli della Lord’s resistance army (Lra) guidati dal visionario Joseph Kony. Ogni giorno massacri di civili e rapimenti di decine di bambini e bambine, destinati spesso a diventare soldati e schiave. In 17 anni di guerra, secondo dati Onu, gli attacchi dei ribelli hanno provocato oltre 1 milione e 200mila sfollati interni e, solo quest’anno, il rapimento di circa 10mila bambini.
«La situazione umanitaria è peggiore di quella in Iraq: non c’è nessun altro posto al mondo con un’emergenza di questo livello, che richiama così poco l’attenzione internazionale» ha dichiarato un mese fa Jan Egeland, vicesegretario generale dell’Onu e responsabile delle questioni umanitarie, dopo aver visitato il paese. Un appello ripreso dal Segretario generale Kofi Annan, che nel corso del vertice annuale ha chiesto ai “donors” uno sforzo particolare per le regioni acioli. Eppure nulla sembra muoversi. Pochi giorni fa il ritrovamento di una nuova fossa comune con 75 corpi.
Il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe ha invece annunciato l’uscita dal Commonwealth. L’organismo ha rinnovato la sospensione del paese, decisa un anno fa per i brogli denunciati dagli osservatori alle elezioni presidenziali del 2001. Lo Zimbabwe si trova così sempre più abbandonato dalla comunità internazionale, con crescenti problemi economici e sociali.